5 cose che imparo su di me, dagli amici ingegneri, e dall’innovazione
Nei tre anni precedenti ho scritto molto di una mano stampata in 3D. Si chiama Fable, acronimo che sta per Fingers Activated by low-electronics. Cambiamento, conoscenza, e condivisione erano le tre parole chiave della storia delle 3C raccontata anche al TEDx Lake Como 2015 che potete vedere qui. Esse mi hanno accompagnata alla ricerca delle possibilità, dell’innovazione e dell’accessibilità di dispositivi biomedicali. A volte ho cambiato punto di vista, altre mi hanno resa curiosa o creativa, dove il racconto ne è diventato il vero protagonista. Le pagine erano quelle di un blog, ma travestito da un Diario, ed ogni capitolo era un approfondimento sul design, sulla meccanica o sull’elettronica della mano che presto avrei indossato. Le sale d’attesa, nel tempo, sono diventate dei luoghi in cui si aveva l’impressione di essere tante cose assieme. Di solito, si bisbiglia su cosa fa chi, si pensa che di persone in realtà non ce ne sono, se non numeri senza bisogni concreti. Si saluta con un cenno veloce e distratto chi esce dallo studio medico. Si attende il proprio turno, appunto.
Mi manca qualche pezzo, è vero, e qualcuno si meraviglia per le attività che svolgo. Forse non rientra nelle possibilità considerate che una ragazza – nata così, possa avere degli obiettivi, possa avere una carriera, possa avere una relazione. O meglio, si riflette poi, in un secondo momento. Ogni volta penso che proprio non mi va bene, che non mi sento rappresentata, che non sono a mio agio, ma qui non dilungo, ne ho già scritto. La domanda, che si ripete da qualche tempo, nel mondo lavorativo – la narrazione, e in quello personale, è:
«Fable, la protesi?»
E comincio così.
Cara Lettrice,
Caro Lettore,
ho scritto le righe precedenti qualche mese fa, in una sala d’attesa, appunto. Pensando alla pazienza che ciascuno di noi possiede, alla speranza che nutriamo e riceviamo quotidianamente dalle persone che condividono parte del nostro viaggio, in generale. C’è chi si porta un libro, chi guarda il cellulare, chi chiacchiera. In fondo siamo diversi, ma uguali nell’attesa. E speriamo che le parole scomode, le parole con cui farci i conti non arrivino mai. Perché nonostante tutto ci crediamo, e abbiamo inserito un bel po’ di cose da fare nella lista.
Ma quando la notizia, di tre anni fa, fece capolino, quella di avere una mano in più, grazie la tecnologia accessibile, le community e la stampa 3D, ho preso entusiasmo, come una bambina intrepida attendeva l’arrivo di Babbo Natale, del nuovo anno e dei nuovi propositi.
E tutti – chi del mestiere, chi appassionato, già aveva saputo. Ho preso coraggio e ho cominciato a raccontare in prima persona il bello di ciò che stavo vivendo, l’opportunità di avere una mano in più. E come scrissi, in uno dei primi diari (sul blog Che Futuro!), non vedevo l’ora che tutto fosse veramente reale. Perché un oggetto biomedicale che incontrava anche il mondo della narrazione non si fermasse solo tra il mondo virtuale, su qualche video, o foto postata.
Vedere quell’oggetto indossato, alla mia piccola mano destra, sentirlo e impararlo a muovere sarebbe stato bello. Ed è forse così che si sarebbe concluso il diario di Fable. Invece scrivo queste parole al condizionale, perché come persona paziente ricordo le altre persone pazienti che ho conosciuto, che ho ascoltato, e rappresentato per lo stesso bi(sogno) – in tre anni. Grazie agli articoli scritti, agli eventi a cui ho partecipato. A quante mamme, papà, ragazze/i, bambine/i hanno atteso pure loro il lieto fine. Di seguito le domande
«Dove si acquisterà la protesi? In quale modo l’idea si concretizzerà per i miei figli? Un contatto per un mio conoscente? Allora si può fare!»
E io ancora non sapevo dare una risposta, certa, sicura.
Con queste righe, vorrei rispondere personalmente ed esprimere ciò che provo, ciò che la tecnologia può (veramente) dare, e ciò su cui invece mi sento di dire, già non è proprio tutto possibile e reale.
Concludo così il diario di Fable, elencando 5 cose che ho imparato su di me – ancora con una mano e mezza, dagli amici ingegneri, e dall’innovazione.
Vi presentiamo una mano robotica stampata in 3D.
Scriveva un post visualizzato lo scorso novembre su Facebook. Ci ho pensato due volte. Correlazione corretta? Il video, in realtà si riferiva ad una mano meccanica stampata in 3D azionata da una mano di una persona. Un ricercatore e ingegnere robotico, che in questa sede chiamerò M., mi spiega che concettualmente non è la stampa in 3D a definirla come robot, perché esso può essere fatto di qualsiasi materiale, essendo un meccanismo autonomo. Il solo sistema meccanico non fa di una mano protesica, un robot. Lo diventa nel momento in cui possiede anche una parte elettronica che la controlla, e la guida autonomamente nella esecuzione di predeterminate attività.
Il design
Tra il 2015/2016, raccontavo che esso e la stampa 3D in particolare, sono la scorza che rende economicamente più accattivante la protesi.
M. racconta che un prodotto che sia di matrice ingegneristica non ha senso se non viene usato e soprattutto venduto. Da questo, ne deriva che la parte di design è importante per l’utente che andrà ad indossarla in base alle preferenze personali, ma ciò che conta in una mano robotica è riuscire a compiere le azioni per cui è stata costruita. Essa deve anche rispettare determinati criteri, quali l’ingombro e la pesantezza. E, fino a quando la componente elettronica – la fase più complicata, delicata, ma basilare – non è realizzata, il design di una mano stampata in 3D viene subordinato, è l’ultimo passo nell’implementazione dell’ausilio.
La tecnologia
Essa sta facendo passi da gigante, ma dal punto di vista economico se la domanda è bassa, il prezzo aumenta. Infatti, davanti ad altre possibilità concrete di mani mioelettriche, ho potuto verificarne l’inaccessibilità, per esempio. Il costo aumenta davvero, quasi a 30.000 euro.
Molte innovazioni che abbiamo ora accessibili sono dovute al loro potere commerciale
– mi ricorda M.. Si tratta di essere persone pazienti in molti casi.
L’utilità
Normalmente non consideriamo alla perfezione del nostro corpo per quanto imperfetto possa essere. (La frase è di M., e mi piace moltissimo) Mi vengono in mente i corsi di Yoga che ho cominciato a seguire lo scorso ottobre, i percorsi per il corpo e per la mente e l’equilibrio sino alle proprie possibilità. Ma basta riflettere a quanto le nostre mani siano robuste per fare tutte le cose che riusciamo a fare.
Immagini tutte le attività che normalmente facciamo con una ipotetica mano di polimeri termoplastici?
Con questo tipo di dispositivi è di importanza basilare pensare ai bisogni. E molto spesso anche le protesi più costose non riescono a risolvere problemi apparentemente più semplici.
Mano mioelettrica stampata in 3D
Ricordo molto bene l’evento Cybathlon nel 2016. – La prossima manifestazione sarà nel 2020, quattro anni dopo la prima esposizione. Questo perché l’innovazione necessita anch’essa di tempo. Le protesi sono considerate dei «beni di lusso», è necessario utilizzare materiali resistenti, durevoli. M. dice che il suo pensiero non esclude la positività che nel giro di qualche anno, grazie al commercio di altri tipi di tecnologie che usano simili componenti e lo sviluppo di nuovi siti di ricerca, sarà possibile accedere più facilmente a questi dispositivi. Avendo avuto la fortuna di usare spesso la stampa 3D durante i suoi studi, le è stata molto utile per abbassare i prezzi ed i tempi di progettazione e prototipazione di un meccanismo robotico, tuttavia è davvero difficile intraprendere un percorso così ambizioso, e pensare ad un prodotto finale mioelettrico, stampato in 3D.
Ci ho sperato con entusiasmo e con gioia. Fable ha anche il mio nome, ma non mi appartiene più. E fa un po’ male scriverlo. Ne sono stata l’anagramma per un po’, ma la favola non si è conclusa in modo positivo. Ci tenevo a raccontare anche la parte più dolorosa, a malincuore, come se avessi scritto il primo diario. Le tempistiche, le promesse, i punti di vista di un progetto cambiano. A volte le cose non vanno come si vorrebbe. Si pensa a cosa si dovrebbe fare. A cosa sia giusto fare e sapere, come continuare.
Scrivevo:
Per dirvi, essere pazienti, a volte è coraggio. Se prima ho atteso, ora è aspettarsi qualcosa e qualcuno che avevi immaginato da tempo. Ed è una condizione di gran lunga più difficoltosa. Il cosa, il come, il perché non sai mai quale sarà. […] In noi ci sono sentimenti strani. E si vorrebbe subito vedere il dopo: il risultato. Cosa c’è dentro la stampante 3D? Chi c’è al di là della porta? Poi bisogna saper rallentare, e attendere. Improvvisamente quando tutto sembra terminato, si tira un sospiro di sollievo, e scopri che una matita è già lì che ti aspetta.
Ho atteso un sogno – in prima persona plurale. E io ho pensato così, al ricordo, alle persone conosciute, alle mani reali e astratte in più accolte. A non aver paura di parlare ad alta voce. Ho pensato alla fragilità. Sì, è proprio come una scatola.
A un capitolo della mia storia appena concluso, perché è importante ciò che stato, ma più ciò che sarà, ne sono sicura, nel prossimo.
Già, appena cominciato.
Con affetto,
Fabia