di , 13/12/2016

Le imprese biotech italiane non se la passano male. E sì, possiamo dire “italiane”, visto che più del 65% di loro ha controllo tricolore. A chiusura 2016, Assobiotec ed ENEA ci consegnano, con il contributo di APSTI, un quadro chiaro e ottimistico sul loro stato, firmando una monografia intitolata: Lo sviluppo dell’industria biotech in Italia: riflessioni sul ruolo e sulle esperienze delle PMI tra innovazione e politiche di supporto”, che fa quasi da corollario al consueto report annuale “BioInItaly”.

Lo studio ci propone non la classica fotografia ma, in termini social, un’istantanea fatta di realtà molto giovani, considerato che più di ¼ delle imprese è nato negli ultimi 5 anni, vivacemente orientate a strategie di business tese a valorizzare i loro asset immateriali strutturandosi, a seconda dei casi, come product company, service company oppure, se interessate a cedere i diritti allo sviluppo, technology company.

Biotech italiano: i trend

Il biotech “made in Italy” di ultima generazione sembra avere assimilato il concetto di resilienza, cimentandosi, soprattutto nel caso delle imprese più giovani, in ambiti applicativi secondari rispetto al core business. Accanto alla diagnostica e agli approcci terapeutici innovativi, ambiti in cui l’Italia può dire la sua, sempre più imprese, soprattutto quelle nate dopo il 2010, si cimentano nel campo ambientale, nella produzione di materiali, prodotti chimici ed energia e nell’ambizioso settore della bioinformatica. Non solo dinamiche e multitasking, le aziende biotecnologiche millennial mostrano anche una spiccata attitudine alla collaborazione, che, combinata a una R&S interna ad alta intensità – caratteristica del settore – garantisce un plus in termini di acquisizione di nuove conoscenze e di capacità di gestire l’innovazione secondo una dinamica open.

Le piccole realtà imprenditoriali biotecnologiche, soprattutto se research-oriented, sono alfieri nel processo d’innovazione del sistema italiano, costituendo tasselli importanti degli hub a cui attingono grandi player industriali e università. Proprio gli atenei e, più in generale, gli enti pubblici di ricerca (EPR), rappresentano l’humus degli spin-off da cui origina circa l’80% delle aziende biotech a controllo italiano. E questo non è un caso, visto che la principale modalità di valorizzazione dei risultati della ricerca da parte degli EPR nazionali si basa sulla costituzione di spin-off, che tuttavia, a differenza di quelli di origine industriale, hanno un impatto tutt’altro che considerevole sul fatturato biotech totale e sul numero di addetti. Qui, ahi noi, si incappa in un classico limite del sistema della ricerca pubblica italiana, che si materializza in uno scarso background imprenditoriale e, di conseguenza, negli organici degli spin-off che questo origina, dove raramente si trovano profili manageriali. Un’ulteriore differenza tra gli spin-off biotech provenienti dalla ricerca pubblica rispetto a quelli di origine industriale risiede nel fatto che, mentre questi ultimi tendono maggiormente a rispecchiare le caratteristiche specializzazioni produttive territoriali, i primi contribuiscono a rendere più ricco e variegato lo scenario, focalizzandosi principalmente su genomica e proteomica, seguite dall’agroalimentare.

Ricerca biotech: il ruolo degli investimenti pubblici

Cosa permetterà a queste promettenti e giovani imprese di fare il salto di qualità? Di certo non venture capital o private equity, chiariamo subito. La loro partecipazione è evidentemente marginale nel panorama che stiamo considerando – solo per il 12% – mentre preponderante è l’autofinanziamento (61%), seguito dai contributi in conto capitale generalmente pubblici (33%) e dal capitale di debito (17,5 per cento). La partecipazione a progetti di ricerca pubblici si attesta quale principale fonte di finanziamento per nuove iniziative imprenditoriali, ma è chiaro che non può essere questa la leva per lo sviluppo e, quindi, per lo scale-up delle aziende biotech italiane. Il disagio è ancora maggiore negli spin-off, che denunciano una grande difficoltà a intercettare partner industriali interessati a partecipare al capitale sociale. Questo quadro frammentato è frutto dell’assenza di una governance che metta a sistema le leve finanziarie mirando a un orizzonte preciso. Certo, il Governo ha messo in campo alcune iniziative che potrebbero aiutare le nostre coraggiose imprese biotech a superare la tristemente nota “valley of death” in cui ci si arena per scarsità di fondi, come le agevolazioni dedicate a PMI e startup innovative, il credito d’imposta e il fondo di garanzia, ma, a detta degli imprenditori biotech, tali strumenti non terrebbero conto delle specificità del settore, come ad esempio degli elevati investimenti in R&S, e mancherebbero, tra i preposti a valutare le idee progettuali, figure con adeguate competenze. Come a dire, tra innovazione e politiche di supporto le imprese nostrane del biotech navigano nel loro mare, volenterose e competenti. Una bussola darebbe una gran mano.