Ci sono state cose che in questi ultimi 10 giorni di reclusione forzata nelle zone gialle non ci hanno stupito più di tanto, forse perché ci chiamano ‘pazienti’ e siamo abituati a seguire le direttive mediche, soprattutto quando ci rendiamo conto che è finito il tempo di scherzare con Dr. Google.
O forse perché i casi della vita ci avevano già addestrato ad avere dodici backup plan di fronte alla salute incerta. È stato così che molte famiglie con un giovane con disabilità hanno affrontato il diffondersi del Coronavirus in Italia.
Qualche esempio di cose a cui ci avevano già abituati?
- Misure di Social distancing, ovvero mantenersi lontani da zone affollate per limitare il contagio: le persone con pregresse condizioni morbose sono più fragili per definizione, magari hanno un emisfero del cervello in meno, qualche altro organo malfunzionante o si stanno sottoponendo ad una terapia che abbassa le difese immunitarie. Ma ogni mamma sapeva già quanto una banale influenza potesse condizionargli un equilibrio precario e l’effetto domino delle malattie… il raffreddore, la febbre, le convulsioni febbrili, i farmaci malassorbiti, le fisioterapie saltate, in una escalation impredicibile. Meglio qualche giorno di scuola saltato, senza dubbi. Meglio non intasare troppo le terapie intensive, non si sa mai.
- Smart working, ovvero lavorare da remoto: quando sei caregiver donna e lavoratrice, quando ti rifiutano il part-time, quando continuano a metterti riunioni durante i tuoi giorni di permesso Legge 104, sai già che ti conviene organizzarti con una buona e sicura soluzione di videoconferenza e collaborazione online. E combattere ad armi impari da casa.
- Lavarsi le mani: molti dei genitori di bambini con le cosiddette ‘pre-existing health conditions’, hanno cominciato a istruirsi sulle procedure di lavaggio mani fin da quando sono diventati caregiver; chi di noi ha frequentato una terapia intensiva neonatale conosceva già l’odore delle soluzioni a base di alcool o le mani screpolate dai troppi lavaggi, abitudini che non si perdono con il tempo.
- Sentirsi chiamare signora: che tu stia parlando ad un simposio di medici nella veste di genitore di bambino con unico caso di malattia al mondo o abbia un PhD in virologia, poco importa, in alcune stanze sarai sempre ‘la mamma di M.’, la signora a cui non si possono spiegare tutte le cose imparate in dieci anni di studio di medicina, quella per cui peste e virus stanno bene anche nella stessa frase. Lei non sa signora Maria Rita quanti dottori Boriosi abbiamo incontrato sulla nostra strada: tapparsi il naso e andare avanti, studiare e dimostrare con i fatti.
- Essere abituati a situazioni incerte, malattie rare, malattie croniche, in cui il medico curante sa darti poche risposte: ecco, lo abbiamo rivissuto anche qui, quel metti la mascherina e togli la mascherina, quel cane di Hong Kong che non si sarebbe dovuto ammalare, le statistiche che funzionano solo per gli altri, i bambini che non si ammalano e i loro nonni si, R=1,2,3… È una condizione nuova, tutti stiamo imparando.
- Il servizio sanitario nazionale: noi ringraziamo tutti i giorni di essere pazienti in Italia.
E poi invece qualcosa di nuovo ci ha stupito, anche qui da noi, nel bene e nel male:
- L’intelligenza artificiale: in un’epoca in cui pubblichiamo più o meno incosciamente tutti i nostri dati di salute online e in cui firmiamo decine di moduli di consenso per la gestione dei dati in ospedale, avremmo voluto vedere una pioggia di numeri alla matrix e un supercomputer che ci diceva che il paziente 1 aveva incontrato la signora Maria al supermercato di Codogno. Non lo abbiamo visto.
- Finalmente le istruzioni degli organi competenti cominciano a diventare accessibili secondo le abilità di ciascuno, cioè a tutti: lo spot con Amadeus promosso dal Ministero della Salute è disponibile anche nella lingua dei segni LIS e con sottotitoli.
- Il fascicolo sanitario elettronico: per alcuni è stata la salvezza, mandare una mail al pediatra, farsi prescrivere la ricetta, ritrovarla nel proprio fascicolo, andare in farmacia con soli due numeri e il gioco è fatto. Per alcuni ma non per tutti, è tutta una questione di pantone verde su questa mappa: https://www.fascicolosanitario.gov.it/
- La tele-medicina: non meno di un mese fa un investitore a cui proponevo una soluzione di tele-riabilitazione online, mi replicava ‘Ma non siamo mica come in Australia qui, le mamme vogliono portare i bambini in ambulatorio’. Chissà che mamme frequentano gli investitori italiani, io lo avrei voluto tanto un terapista che si collegasse online in questi giorni.
- Medici che dicono cose su Internet: mai come prima ci siamo resi conto di quanto sia necessario un media training anche ai medici che vogliono dire la loro dai profili personali o pubblici su facebook; quando diventi il CEO di una grande azienda te lo spiegano per bene quelli del tuo ufficio relazioni esterne: cosa raccontare ad un giornalista, quando vi fermate a prendere un caffè prima dell’intervista? Sai che un tuo tweet sbagliato può influenzare l’andamento di Borsa?
Ecco, c’è una responsabilità sottovalutata che emerge da quelle baruffe dei medici online, ancora non hanno capito che per un paziente le parole possono essere macigni, quello si che è abuso di potere nella relazione di aiuto verso le persone con disabilità.
In quest’attenzione sempre più alta alla salute circolare, a ‘quel battito d’ali di farfalla della giungla amazzonica che può provocare un uragano sull’Europa’, come ci ricorda la donna di scienze Ilaria Capua, sapete cosa ci preoccupa di più?
Ci preoccupa leggere le storie di cui poco si parla, in questa infodemia: ‘Non può parlare o badare a se stesso’, è la storia di un diciassettenne con paralisi cerebrale che è morto dopo essere stato lasciato solo per 6 giorni mentre le autorità cinesi hanno messo in quarantena suo padre per paura del Coronavirus.
Il nostro antidoto alla preoccupazione per ora è stato l’ascolto, e l’educazione, per grandi e piccoli, ad una lettura critica, ad aumentare il proprio livello di health literacy per prendere decisioni più consapevoli sulla propria salute.
Sarà per questo che la cosa più bella di questi giorni è stato il papà di un compagno di scuola di mio figlio, per me è lui ‘il Carlo Urbani del 2020’: genitori entrambi medici, impegnati giorno e notte a gestire questa situazione di crisi, in prima linea, eppure il papà ha trovato il tempo per collegarsi in una video-call di classe autogestita, in cui ha risposto a domande che a qualcuno con una manciata di followers sembreranno banali, da bambini. Perché si chiama corona? Per quanto tempo dobbiamo contare quando ci laviamo le mani? Possiamo ordinare il sushi stasera? Perché si chiama quarantena se invece dura meno di quaranta giorni?
Continuiamo ad essere pazienti, ma più informati di prima e forse per questo meno preoccupati.
Articolo pubblicato sul blog alleyoop.ilsole24ore.com