Un report dell’oms traccia il livello di utilizzo delle tecnologie in ambito medico nel vecchio continente: dalla telemedicina all’uso delle app per smartphone
Un recente report pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e condotto su 47 paesi europei fotografa la situazione della sanità digitale (la cosiddetta e-health) in Europa. Se il messaggio generale del rapporto è che nella maggior parte degli stati membri la sanità elettronica è diventata uno strumento importante per fornire servizi sanitari e promuovere il miglioramento della salute pubblica, molte sono ancora le difficoltà da superare. Partendo dalle note positive, il report segnala come il fascicolo sanitario elettronico e i sistemi di cartella clinica elettronica siano adottati dal 59% dei paesi europei (l’Italia purtroppo non è fra questi visto il forte ritardo con il quale tali strumenti sono stati introdotti nel nostro paese). Anche la telemedicina è piuttosto sviluppata, soprattutto nei paesi del nord dove per ragioni storiche, geografiche e culturali tali strumenti sono impiegati da molti anni. Per esempio la teleradiologia (la possibilità cioè da parte dei medici di visionare immagini radiologiche a distanza) è adottata dall’83% dei paesi, mentre il telemonitoraggio (inteso come la possibilità di seguire e monitorare a distanza le patologie dei pazienti in ottica curativa e preventiva) è una pratica in uso nel 72% degli Stati che hanno risposto alla indagine. L’attitudine all’uso di questi sistemi è ulteriormente dimostrata dal fatto che il 62% dei paesi coinvolti nell’indagine dichiara di possedere politiche dichiaratamente rivolte alla telemedicina, con un sostanziale progresso rispetto al 30% rilevato nella precedente indagine risalente al 2009.
Le note dolenti arrivano, invece, dall’impiego dei social media e delle applicazioni mediche per smartphone e tablet. Se il 91% dei paesi europei dichiara che i social media sono usati dai cittadini e dalla comunità per conoscere e informarsi sui problemi di salute (ma tali dati andrebbero verificati con indagini ad hoc) e se l’81% di essi sostiene che le proprie organizzazioni sanitarie ne fanno uso per promuovere la salute e rendere più efficaci campagne di prevenzione (ma anche in questo caso sarebbe stato più utile un dato riferito al numero di organizzazioni sanitarie e non al numero di paesi, così da poterlo confrontare, per esempio, con il dato italiano che stima in circa il 30% il numero delle ASL presenti sui social media), solo il 14% riferisce di avere una politica nazionale per gestire e regolamentare la comunicazione social da parte dei professionisti della salute e degli operatori sanitari. Un dato, quest’ultimo, che contrasta sia con l’ampia diffusione dei social media tra i cittadini come strumento di informazione e di comunicazione, sia con la consuetudine, ormai diffusa, da parte di organizzazioni private impegnate in ambito sanitario di dotarsi di una propria policy. Per quanto riguarda le app mediche, i paesi europei mostrano un elevato interesse al loro impiego testimoniato dal fatto che circa la metà di loro ha attivato programmi governativi basati sulla cosiddetta mobile health (m-health). D’altra parte un recente report dell’Unione Europea aveva suggerito agli Stati l’adozione delle app mediche come strumento per gestire patologie croniche, prevenire le malattie nei pazienti a rischio, promuovere stili di vita salutari, aumentare l’aderenza al trattamento (anche semplicemente ricordando quali medicine assumere nel corso della giornata e quando), monitorare la salute dei pazienti e dei cittadini. Tuttavia è ancora molto elevata la percentuale di paesi (il 73%) sprovvisti di un organo responsabile per la vigilanza della qualità, sicurezza e affidabilità delle app mediche e sanitarie. In questi paesi, in altre parole, non è prevista la certificazione delle app mediche, unica via per consentire alla tecnologia di dare i propri frutti preservando la salute dei loro utenti. A ciò occorre aggiungere il fatto che solo il 7% dei Paesi ha valutato il reale impatto e l’efficacia dei propri programmi di m-health, fornendo così delle basi solide per il loro impiego nella pratica clinica.
L’adozione di politiche mirate a livello statale è raddoppiata dal 2009, ma c’è ancora molta strada da fare.
La sensazione, leggendo il report, è che tanto è stato fatto, soprattutto rispetto agli ultimi anni, ma che tanto deve essere ancora fatto per poter introdurre definitivamente questi strumenti nel percorso di cura e di assistenza. Dal punto di vista della privacy, occorre garantire la sicurezza dei dati presenti nei sistemi di e-health e soprattutto sui sistemi di m-health (smartphone, tablet, tecnologia indossabile), sui quali le prove di inaffidabilità in questo contesto sono ampiamente documentate. È poi necessario lavorare sul fronte della validità dei sistemi e-health. È diventata prioritaria l’istituzione di un organismo in ciascun Paese (a cominciare dall’Italia) che vigili su qualità, sicurezza e affidabilità degli strumenti di sanità digitale, con particolare riferimento alle app mediche e alla tecnologia indossabile, richiedendone la certificazione soprattutto in quei casi in cui la salute del paziente è messa a serio rischio. Infine l’impatto della e-health (compresa la telemedicina) dovrebbe essere valutato con i metodi della evidence-based medicine (la medicina basata sulle prove di efficacia) che dimostrino che attraverso il loro impiego si possa praticare una medicina migliore (cioè più efficace) rispetto a quella tradizionale.
Finché queste tre condizioni non saranno soddisfatte, finché non sarà dimostrato con una metodologia scientifica rigorosa (per esempio attraverso sperimentazioni cliniche controllate) che la sanità digitale produce risultati migliori rispetto a quella tradizionale, difficilmente in Italia (ma anche in Europa) potrà definitivamente decollare.
L’articolo è apparso in originale sulle pagine Salute&Benessere de La Gazzetta del Mezzogiorno, 1 maggio 2016.