di , 17/02/2017

Social media e comunicazione sanitaria, che relazione ci può essere tra le nuove piattaforme di socializzazione e la promozione della salute? Se le informazioni sulla salute passano anche attraverso la rete e i social network, quale deve essere il ruolo delle istituzioni e in che modo i medici possono prendere attivamente parte ai discorsi sulla salute?

Ne abbiamo parlato con Eugenio Santoro, responsabile del laboratorio di informatica medica del dipartimento di Salute Pubblica dell’IRCCS – Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, che da diversi anni si interroga su queste problematiche.

Qual è il ruolo di internet e dei social media nella costruzione del sapere sulla salute?

Il peso crescente che i social media e il web in generale hanno nella costruzione del sapere dei cittadini in ambito salute è testimoniato da diverse ricerche. GFK Eurisko, in un’indagine pubblicata a Maggio 2016, ha rilevato che sono circa 11 milioni e mezzo gli italiani che utilizzano internet per cercare informazioni sulla salute in maniera costante e sempre più spesso attraverso i social network. Del resto è un dato che va a confermare quanto rilevato da una precedente indagine del Censis di tre anni fa, secondo cui i social media erano tra gli strumenti più utilizzato in questo campo.

Dato recentissimo è quello del Diabetes Web Observatory, secondo cui internet si conferma una fonte primaria di informazione per le persone affette da diabete, e da cui si evince quanto per questi pazienti siano importanti le comunità online: metà degli intervistati usa il web e i social media per confrontarsi con altri pazienti. Questo probabilmente dipende anche dalla natura stessa della malattia. Il diabete, infatti, è una patologia molto diffusa e impatta pesantemente sulla vita quotidiana. Anche da nostre indagini con i medici diabetologi abbiamo riscontrato che i pazienti diabetici sono forti utilizzatori di applicazioni, e che questo sono spesso prescritte dai medici. Molte di queste non hanno direttamente a che fare con la medicalizzazione del paziente, quanto con la modifica degli stili di vita: strategia largamente utilizzata dai medici per ridurre i rischi e tenere sotto controllo la malattia senza i farmaci.

Lo stesso discorso vale per tutte le malattie croniche, e anche per i tumori, dove l’impiego di strumenti di online community è molto ampio, proprio per la necessità di un forte supporto psicologico che queste patologie richiedono.

Spesso i medici vivono queste pratiche dei pazienti in maniera conflittuale. L’uso dei social media e del web è secondo lei in competizione con il lavoro del medico?

L’uso di questi strumenti certamente non deve e non può sostituire il rapporto con il medico, ma possono offrire una serie di vantaggi nella gestione delle patologie, specie per quel che riguarda tutti quegli aspetti non strettamente clinici e rispetto ai quali il medico ben poco può fare.

Del resto, la gestione della malattia è un settore in cui il sistema sanitario risulta carente ed è evidente che gli strumenti di aggregazione hanno degli effetti positivi.

Certo, non bisogna nascondere che ci possono anche essere dei rischi insiti nell’uso di internet e il caso dei vaccini è un esempio lampante di come la community può anche creare disinformazione; e qui i social media hanno avuto un effetto egualmente dirompente.

A differenza del diabete, area in cui il paziente empowered conosce molto bene la malattia, il caso delle vaccinazioni si prestava a creare confusione, perché si è aperto un terreno di discussione laddove invece andava fatta informazione, innanzitutto. In casi come questo bisogna coinvolgere il maggior numero possibile di cittadini esponendoli ad una corretta informazione e le community dovrebbero essere utilizzate strategicamente anche da parte delle istituzioni. È evidente che, in Italia soprattutto, questa assenza istituzionale sui canali socia delle istituzioni crea un vuoto pericoloso. Le informazioni corrette, infatti, dovrebbero arrivare in primo luogo dai canali social istituzionali, che parlano con un linguaggio appropriato su argomenti a cui la rete è sensibile. Invece, i social media vengono usati generalmente male, anche dalle realtà locali.

L’esperienza della salute passa sempre più per la sua digitalizzazione. In che modo questo processo può favorire una cultura della prevenzione?

Per favorire una vera cultura della prevenzione, la prima cosa che deve esserci è l’informazione di buona qualità. E poi bisogna utilizzare i canali giusti per raggiungere il target desiderato e parlare con un linguaggio appropriato. Se si fa informazione sui giovani è necessario parlare nel modo giusto e attraverso i canali più frequentati da questa fetta di popolazione. Inoltre, per essere veramente efficaci, non bisogna dimenticare quanto sia importante il coinvolgimento. Non è più sufficiente trasmettere informazioni corrette, ma bisogna coinvolgere gli utenti, e i social media offrono un’opportunità senza precedenti per mettere i cittadini al centro del sistema salute. Se ci si limita a dire solo “mangia meno e bevi meno”, non si raggiungeranno mai grandi risultati, bisogna riuscire a modificare gli stili di vita di persone per fare prevenzione. I social media consentono di recuperare la fiducia dei cittadini e la possibilità di interagire con le istituzioni è un fattore importante per catturare la loro attenzione e utilizzare strumenti, come lo storytelling, per generare un dialogo.

Le istituzioni dovrebbero creare dei veri e propri spazi di ascolto dei cittadini, in modo da poter intervenire in maniera tempestiva nel contenere e guidare la discussione. L’ascolto online dei social media e delle conversazioni in rete dovrebbe essere una pratica quotidiana per poter rispondere direttamente alle richieste di chiarimento degli utenti e gestire le situazioni di crisi. La prevenzione delle malattie passa anche dalla capacità delle istituzioni di utilizzare gli strumenti del marketing per promuovere la salute.

Esistono delle evidenze scientifiche secondo cui l’uso dei social media ha un effetto tangibile nella prevenzione e nella modifica dei comportamenti?

Si ci sono. I primi studi risalgono al 2013 e continuano a emergere evidenze, molte delle quali derivano da studi randomizzati. In alcuni casi abbiamo anche studi osservazionali, ma tutti che vanno nella direzione secondo cui l’uso delle online community e dei social media può avere un impatto importante nella gestione delle malattie croniche.

Questo perché il confronto con altri che si trovano in condizioni simili genera aspettative positive, porta ad emulare nel bene gli altri pazienti. Inoltre, ci sono alcune prassi e dinamiche social che risultano positive quando applicate alla gestione della malattia: misurare frequentemente la glicemia, ad esempio, e condividere il risultato nella community porta altri pazienti a fare altrettanto.

Anche sugli stili di vita l’impatto dei social media può essere positivo. La gamification, quando applicata all’esercizio fisico e alla perdita di perso può innescare un circolo virtuoso che porta ad un notevole abbattimento dei fattori di rischio. Gli studi evidenziano proprio che i social possono contribuire a modificare positivamente i comportamenti e i gli stili di vita.

Ci sono degli esempi virtuosi di organizzazioni sanitarie in grado di comunicare efficacemente sui social?

I buoni esempi ci sono senz’altro. Il caso che cito di frequente è quello di Mayo Clinic, il colosso americano che gestisce 70 ospedali negli Usa. Un’istituzione che gestisce diversi account social su varie piattaforme e che fa attivamente attività di disease awareness e prevenzione. Sempre a livello internazionale, anche il National Cancer Institute è un ottimo esempio di come si possano usare i social per fare prevenzione. Infine, l’OMS è riuscito a costruire una forte presenza sui social media con ben 24 profili Twitter, differenziati a seconda del target e della tematica trattata. Tra le istituzioni italiane, forse solo AIFA vanta un uso dei canali social efficace dal punto di vista della comunicazione al pubblico.

Qual è il rapporto degli operatori sanitari e in particolare dei medici con i social network?

Generalmente i social network non sono ben visti dai medici. I motivi sono diversi. Innanzitutto i social network mettono insieme tante cose, ci si trovano comunicazioni sugli argomenti più vari, e non è facile catturare la giusta attenzione. E poi l’uso di questi strumenti come mezzo di comunicazione con il paziente mette a disagio il medico perché si rischia di superare quel confine tra il proprio ruolo professionale e la vita privata e in questi casi il medico può trovarsi in situazioni eticamente rischiose. Pensiamo ad esempio al problema della diffusione di dati personali del paziente. È proprio per questo che l’uso dei social media da parte degli operatori sanitari dovrebbe essere regolamentato da specifiche linee guida, nelle quali si dovrebbero scoraggiare i medici dall’avere tra gli amici i propri pazienti. Bisognerebbe, invece, spingere l’utilizzo di piattaforme di salute digitale specifiche in cui la comunicazione è protocollata. La situazione in Italia non è regolamentata dalle associazioni mediche, e di fatto la comunicazione tra medico e paziente avviene anche attraverso le nuove tecnologie; dai dati emerge che nel 12% dei casi medico e paziente comunicano anche attraverso i social network e questa non è una cosa positiva, soprattutto in mancanza di linee guida.

Tra le diverse piattaforme social il medico preferisce senz’altro WhatsApp. Questo per diversi motivi: perché è facile mandare un messaggio, inviare una fotografia, e soprattutto perché consente di essere reperibile e questo non dispiace al medico. Il problema è che arrivano messaggi a tutte le ore e questo è uno degli aspetti meno graditi.

I dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano confermano questa disposizione digitale dei medici, che è così ripartita:

  • 83% fa uso di mail
  • 70% usa sms
  • 53% usa WhatsApp
  • 12% usa il social network
  • 7% usa skype

È evidente, dunque, che c’è una domanda forte ad avere canali di comunicazione alternativi alla telefonata o alla visita in studio, anche da parte del medico. Questi strumenti, infatti, velocizzano molta parte del lavoro. Il problema è che si tratta di un ambito non sufficientemente regolamentato, il che mette il medico in una condizione di vulnerabilità legale. La stessa FNOMCEO, nel Congresso tenutosi lo scorso a maggio, ha sottolineato che l’ordine stesso dei medici dovrebbe iniziare a prendere delle posizioni chiare in merito e stabilire delle linee guida sull’uso delle tecnologie digitali da parte del medico.

Eugenio Santoro è responsabile del laboratorio di informatica medica del dipartimento di Salute Pubblica dell’IRCCS – Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”. Dal 1995 si occupa di internet, web 2.0 e social media e della loro utilità in ambito medico. È docente di diversi master universitari di comunicazione scientifica e ricerca medica. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: Web 2.0 e social media in medicina. Come social network, wiki e blog trasformano la comunicazione, l’assistenza e la formazione in sanità, Il pensiero Scientifico, 2011; Facebook Twitter e la medicina, Il pensiero scientifico, 2011. È docente a contratto dell’Università di Milano presso la Facoltà di Medicina.