di , 31/10/2023

Un grande volume di dati non corrisponde automaticamente ad una migliore qualità delle inferenze e delle applicazioni che da queste derivano. Il dato, infatti, non è un’entità chiusa, “data”, ma un costrutto sociale, risultato di specifiche scelte culturali, sociali, tecniche ed economiche1. Lo stesso concetto di raw data (dato grezzo) è un ossimoro: non esiste il dato non contaminato da teoria o analisi o contesto, ma è sempre frutto di operazioni e elaborazioni di varia natura.

Le informazioni, per essere utilizzate per il progresso della conoscenza e il miglioramento della salute, devono essere dotate di valore aggiunto in termini di salute. Si tratta di scegliere quali informazioni sono veramente utili e affidabili per essere utilizzate nei processi di cura e nelle relative decisioni. È fondamentale per questo il dialogo interdisciplinare, inteso come collaborazione tra clinici ed esperti di digitale per dare un senso alla raccolta ed alla elaborazione dei dati, per tradurre le esigenze cliniche in requisiti tecnici, guidando la scelta degli algoritmi appropriati e dei metodi di analisi e identificare le priorità, le ipotesi di ricerca, la selezione dei campioni, l’interpretazione delle informazioni. Si deve risolvere quello che P. Keane e E. Topol definiscono “AI chasm”, il fatto, cioè, che anche un sistema di IA con un’altissima efficacia in ambiente selezionato può non essere di grande valore se non dimostra di migliorare gli esiti clinici, mediante studi di validazione in contesti di real-world2.

L’accelerazione dello sviluppo delle conoscenze biomediche si deve accompagnare alla contaminazione con altre branche del sapere, soprattutto quelle tecnologiche, informatiche e ingegneristiche. Per garantire cure migliori e rispondere alle sfide della complessità della natura, è necessaria una ricomposizione della frammentazione dei saperi, una collaborazione tra i professionisti che lavorano intorno a progetti comuni, una coordinazione interdisciplinare per far si che gli obiettivi degli esperti dei numeri coincidano con quelli dei clinici, in modo da rispondere ai veri bisogni delle persone e alle loro necessità di cura.

 La “contaminazione” dovrebbe per questo essere a tre vie, medico, tecnico e paziente, con le sue narrazioni, i suoi bisogni, le sue domande di senso rispetto a quello che gli sta accadendo, per esempio le sue esperienze dirette, positive o negative, di vissuto digitale. Complessivamente, è auspicabile una ridefinizione delle priorità di ricerca e di valutazione della appropriatezza, qualità ed equità delle cure, un diverso sguardo su comunità e storie individuali.

Si tratta di sviluppare strategie e strumenti per una “vera” partecipazione alla cultura della salute/malattia, per realizzare un esercizio concreto di ascolto reciproco e condivisione del potere (e del peso) decisionale tra curanti, tecnici e coloro che  vivono in prima persona le conseguenze delle malattie.  L’esperto di dati dovrebbe condividere il sistema valoriale della Medicina per “modulare” la tecnologia mentre il clinico dovrebbe conoscere le prospettive ma anche i limiti e i rischi nell’utilizzo dei dati. L’efficacia di un modello di IA, pur valida in termini teorici deve essere validata “sul campo”, in funzione del rapporto rischio-beneficio, della probabile aderenza dei pazienti a quanto consigliato, delle possibili alternative. … in altre parole, delle esigenze dei pazienti. Come affermato da A. Santosuosso: “Non esiste alcun fine della medicina che non crolli miseramente di fronte all’ultimo dei pazienti che non lo faccia suo”.3


Bibliografia

[1] Collecchia G, De Gobbi R. Intelligenza artificiale e medicina digitale. Una guida critica. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2020
[2] Keane P & Topol E. With an eye to AI and autonomous diagnosis. NPJ Digt. Med 2018; .1, 40
[3] https://www.slideshare.net/csermeg/informazione-e-consenso-massimo-tombesi