Nel mondo circa 50 milioni di persone soffrono di Demenza – più della metà sono affetti da Alzheimer.
Il declino cognitivo, la graduale perdita di memoria, il senso di smarrimento e disorientamento, sono i sintomi del morbo di Alzheimer o più in generale di Demenza.
Pensare, ricordare e ragionare deteriorano gradualmente. Nell’impotenza generale, quella del malato e quella di familiari e caregiver.
In alcuni casi, il paziente dimentica solo quanto accaduto 10 minuti prima. Nei casi più gravi, però, la condizione degenerativa impatta ed interferisce con la vita e le attività quotidiane della persona.
Spesso confondiamo quanto ci viene mostrato al cinema con la realtà. E allora immaginiamo che, per quanto la malattia possa prendere il sopravvento sulla nostra mente, affianco a noi ci sarà sempre un Noah pronto a leggere, con calma e devozione, le pagine della nostra vita.
Frenate gli entusiasmi. Non è proprio così che va nella realtà.
Il caso: JenniferBute
Come nel caso di Jennifer Bute, medico di base di 72 anni. Jennifer ha dovuto abbandonare la professione all’età di 58 anni. Solo 5 anni più tardi le hanno diagnosticato la Demenza. All’inizio dimenticava solo le password e nessun altro medico ha ritenuto opportuno indagare sulle ragioni. Poi è toccato ad indirizzi, posti e persone. Solo più tardi è riuscita a convincere uno specialista a fare dei test, che hanno poi confermato la sua diagnosi: demenza senile.
È stata una fortuna per Jennifer che lei fosse un medico e che abbia potuto riconoscere i sintomi della Demenza da sola. Molte persone non sono così fortunate. Non si conoscono ancora le cause della malattia. Probabilmente includono una combinazione di fattori genetici, ambientali e legati allo stile di vita.
È possibile per la tecnologia intervenire e poi migliorare il percorso di diagnosi, cura e di assistenza?
Io credo di sì.
I think the main frustration is that if you want to make a diagnosis, you’ve got to spend a lot of time with the patient, going through their history and examining them, and arranging brain scans and that sort of thing. If a person has had a heart attack, there are tests you can do that show quite conclusively that this person has had a heart attack. We can’t do that with Alzheimer’s disease yet. Professor Gordon Wilcock, Oxford Institute
Un numero crescente di prove indica che i cambiamenti cognitivi, comportamentali, sensoriali e motori possono precedere di diversi anni la manifestazione clinica della malattia.
La tecnologia non può – per ora – supportare nella definizione di una cura, ma può assistere nel mantenimento della salute cognitiva, grazie all’apprendimento di cose nuove e connessioni sociali che potrebbero rallentare o impedire lo sviluppo della malattia.
Andrebbero sfruttati tutti i dati raccolti negli ospedali, biobanche, registri di prova, e via dicendo. Pochissimi, però, sono i paesi in grado di collegare regolarmente più di tre di questi set di dati.
Le ragioni sono molteplici. Tra tutte la mancanza di fiducia.
Si tende a dire che c’è un rischio di uso improprio, o di violazione della privacy o altro, piuttosto che pensare al rischio per la ricerca, ma anche per la sorveglianza, per una migliore gestione del sistema sanitario e l’empowerment del paziente. I potenziali rischi derivanti dal mancato utilizzo dei dati non sono stati discussi altrettanto bene. Francesca Colombo, capo della Divisione Sanità dell’OCSE
Qualche esempio
Mindstrong health, una società impegnata nella ricerca e sviluppo di soluzioni per migliorare le condizioni di cura di chi soffre di demenza o altri problemi mentali, sta conducendo numerosi esperimenti in questo campo.
Infatti, recentemente ha dimostrato che i dati di sette giorni di interazioni passive con gli smartphone possono prevedere le prestazioni delle valutazioni della memoria, del linguaggio, della manualità e della funzione esecutiva.
Immaginate che in futuro il vostro medico potrebbe dirvi, durante una visita, che l’uso del telefono mostra segni molto precoci di un disturbo degenerativo del cervello e che ci sono delle attività per prevenirlo.
Uno studio pubblicato da Proceedings of the National Academy of Sciences ha evidenziato che pochi minuti di interazione con un videogioco potrebbe aiutare a identificare le prime fasi del morbo di Alzheimer in modi che i test medici esistenti non possono fare.
Lo studio ha utilizzato un’applicazione per smartphone chiamata Sea Hero Quest per monitorare oltre 4,3 milioni di giocatori tra i 50 e i 75 anni con e senza una predisposizione genetica al morbo di Alzheimer.
Giocando per soli due minuti si genera una quantità di dati che gli scienziati raccoglierebbero in 5 ore di ricerca in laboratorio.
Il tempo di gioco totale di Sea Hero Quest è stato di 117 ore, ovvero 17.600 anni. Insomma lo studio sulla demenza più grande della storia!
Non è, dunque, difficile immaginare che nel futuro prossimo algoritmi intelligenti saranno in grado di cogliere i primi segni di demenza e del morbo di Alzheimer con anni di anticipo oppure estrapolare una potenziale curva di degrado della malattia.
FONTE: World Alzheimer Report 2018